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venerdì 27 novembre 2009

Eagles: Hotel California

Impresa ardua cercare di abbozzare una sorta di "recensione" di una delle canzoni storiche maggiormente conosciute ed apprezzate, un capolavoro che è riuscito a mettere d'accordo pubblico e critica.

"Hotel California" è una ballata che dà il nome forse al miglior disco degli Eagles, anche se personalmente apprezzo tutta la loro discografia pur non essendone un fan sfegatato.
Non a caso il rock arricchito di caldi colori country degli Eagles, pur essendo americano per eccellenza, ha trovato un riscontro molto positivo che ha permesso loro di entrare fra i grandi dell'Olimpo del Rock. Però nel loro caso il termine "commerciale" non è sinonimo di "spazzatura" come spesso accade, perchè se da un a lato i testi a volte non sono di una profondità eccelsa, non si può non riconoscerne la loro tecnica pregevole, la cura nei minimi particolari, l'inventiva e la creatività melodica.
Aggiungo che gli Eagles sono uno dei pochi gruppi dove non esite un leader vocale, e questo è un fatto di grande originalità da non trascurare che mette in risalto, far le altre cose, la loro capacità di mettersi in gioco.

Il testo della canzone narra la storia di un viaggiatore che, lungo una strada buia, vede in lontananza lo scintillìo delle luci di un bellissimo albergo nel quale decide di fermarsi per trascorrere la notte: l'abergo ovviamente si chiama "Hotel California".
Dapprima il viaggiatore è attratto da un "un intenso profumo di colitas", termine che sta ad indicare una varietà di cannabis e che lo stesso Don Henley, membro della band e compositore della canzone insieme a Glenn Frey, ha definito anni dopo come un "inebriante fiore del deserto".
Successivamente, ritta sulla soglia dell'hotel, lo attende una bellissima donna che come facilmente si intuisce dal testo è solita lasciarsi andare a riti orgiastici.
Il viaggiatore si perde, trascorre lì la serata, udendo voci che lo invitano a trattenersi in un posticino così accolgiente pieno di tante promesse ("Benvenuto all’Hotel California, un posticino così accogliente - Abbondanza di camere all’Hotel California puoi trovare qui, ogni giorno dell’anno").
Nella parte finale il viaggiatore impaurito cerca di fuggire, ma il portiere di notte gli dice che da quell'albergo, sebbene possa pagare quando vuole non se ne potrà mai andare.

Per tutta la durata del brano, compreso il lungo e magistrale assolo finale di chitarra elettrica, lo scenario è tipicamente californiano.
Siamo immersi nelle sterminate distese, aride ed assolate degli stati della West Coast americana, nella foschia di un caldo tramonto, dalla quale emerge il luccichìo delle insegne di un hotel speduto in mezzo al deserto, di una meta agognata quanto indefinita che simboleggia "il sogno americano", al quale subentra inevitabilmente la sensazione fredda di un graduale ritorno alla cruda realtà.
Quello degli Eagles è un sorta di country-rock, più rock che country, poichè quest'ultima componente si limita all'uso virtuosistico e massiccio delle chitarre acustiche.
La loro ispirazione musicale nasce proprio da questi ambienti leggendari e dal loro mito, ossìa uno dei tanti fatiscenti miti americani, la cui oscura vulnerabilità è facilmente riscontrabile osservando la realtà delle strade degli Usa, che se vogliamo essere realisti, è ben diversa. Ma almeno con la musica si può sognare un' America che non esiste più, e che forse non è mai esistita.

A questo brano sono stati attribuiti diversi significati, addirittura alcuni riferimenti satanici.
A mio parere qui il tema principale è quello della droga e della dipendenza da uno stile di vita che prima ti affascina, poi ti inebetisce, ti porta ad una condizione di prigionia fino a distruggerti negandoti ogni possibilità di redenzione. E’ un brano di gande profondità e di gande tristezza.
Un vero e proprio ritratto di quella california del sud così acclamata ed agognata come luogo dei sogni, ma che nasconde realtà inquietanti: droga, alcool...
E noi sappiamo bene nel nostro piccolo cosa voglia dire essere prigionieri del vizio,di qualsivoglia natura esso sia, e di quanto sia difficile liberasene.
Tutti abbiamo dei vizi, e chi non ne ha forse è perchè non è in grado di rendersi conto di averne.


Traduzione

Tratta da http://iltorto.it/?p=37

Hotel California – The Eagles – 1976

Lungo un’autostrada buia e deserta, vento freddo tra i capelli,
un intenso profumo di colitas 2 si libra nell’aria
Quand’ecco che vedo in lontananza una luce scintillante
La mia testa si era fatta pesante, la vista sempre più fioca.
Dovevi fermarmi per la notte.

Lei stava ritta sulla soglia, io sentiì il campanello d’allarme,
e stavo pensando tra me e me
“Questo può essere il Paradiso o anche l’Inferno”.
Poi lei accese una candela, e mi mostrò la strada.
Si udivano voci nel corridoio, mi sembrava che dicessero:

Benvenuto all’Hotel California
un posticino così accogliente
(un’accoglienza così positiva)
Abbondanza di camere all’Hotel California
puoi trovare qui, ogni giorno dell’anno.

La sua mente è piacevolmente distorta,
lei ha una “Mercedes bends” 3
Ha avuto tanti ragazzi carini, che lei chiama amici
che ora ballano nel cortile, sudati per la dolce estate,
alcuni danzano per ricordare, alcuni per dimenticare.

Così chiamai il “Capo”:
“Per favore, mi porti il mio vino” e lui rispose:
“Non abbiamo più quel tipo di vino dal 1969″
Ed ancora le voci si facevano udire in lontananza
ti svegliavi nel mezzo della notte, solo per sentirle sussurrare:

Benvenuto all’Hotel California
un posticino così accogliente
(un’apparenza così positiva)
Si godono la vita all’Hotel California
Che bella sorpresa! Procurati i tuoi alibi!

Specchi sul soffitto, champagne rosè con ghiaccio, Lei disse:
“Qui siamo tutti prigionieri del nostro capriccio”
E nella camera del padrone si sono radunati per la festa:
l’hanno pugnalato con i loro coltelli d’acciaio,
ma non sono riusciti ad uccidere la bestia.

L’ultima cosa che ricordo, stavo correndo verso la porta,
cercavo di tornare indietro da dove ero venuto.
“Rilassati” mi disse l’uomo notturno4 Noi siamo qui per accogliere;
puoi lasciare la stanza e pagare quando vuoi,
ma non potrai mai partire.

2. Varietà di marijuana
3. Si riferisce al fatto che la ragazza era “sballata” dalla droga
4. Si tratta dell’uomo alla reception dell’hotel

giovedì 26 novembre 2009

Paolo Bonolis: la comicità supera ogni limite

Paolo Bonolis è uno dei conduttori che preferisco, perchè ha il potere di tenerci incollati al televisore grazie alla sua inconfondibile dialettica accattivante, frenetica, addirittura caraterizzata da un'ironia aggressiva nei confronti dell'ipotetico concorrente, il quale normalmente non sa come svincolarsi da questo turpiloquio continuo ed incalzante.
A questo aggiungo la sua proverbiale capacità di sfruttare le gaff delle sue povere "cavie" avvalendosi della mimica e dei silenzi in corso di trasmissione: tutto questo per enfatizzarle allo scopo di far ridere il pubblico a casa.
In questo caso però, per la prima volta è lui a rimanere senza parole, allibito e quasi incredulo durante la famosa telefonata della trasmissione "Tira e molla".

E' proprio vero - una gioranta senza un sorriso è una gioranata sprecata.

Ecco a voi i "Fratelli Capone".

mercoledì 25 novembre 2009

De André - Tempi duri

Durante una trasmissione televisiva di Gianni Minà dei primi anni '80 (Blitz), ci fu un collegamento con un Palazzetto dello Sport dove suonava Fabrizio De Andrè con un gruppo chiamato "Tempi Duri". In collegamento con Minà in un altro studio c'era anche Antonello Venditti. Si trattava del gruppo fondato dal figlio d'arte Cristiano De Andrè, che dà il nome all'omonimo "singolo" di cui ho incluso il video all'interno del mio post.
Antonello e Fabrizio scherzarono molto insieme e Fabrizio disse che a suo avviso i "Tempi duri" erano un gruppo che in Italia gli sembrava essere originale.

Penso che essere figlio di un "mostro sacro" sia da un lato un grande fortuna, poichè ovviamente si gode del privilegio di avere un maggior numero di opportunità, una maggiore visibilità, e questi sono due fattori fondamentali per chi vuole sfondare, anche se personalmente ritengo che se questo può costituire un vantaggio iniziale, ciò che conta realmente per rimanere a galla siano il talento e la creatività.
Dall'altro lato penso sia difficile reggere il confronto con "un mostro sacro", soprattutto se si tratta di un cantautore che a mio avviso ha avuto per eccellenza la grande dote di saper raccontare la sua città con i suoi vicoli e non solo...

Comunque ciò che mi lascia allibito è che questa canzone sia un clone dello stile dei Dire Straits, dello swing inconfondibile di Mark Knopfler e del suo modo di cantare quasi parlato...
A me ricorda "Sultans of Swing" in tutto e per tutto: il chitarrista pur suonando col plettro interrompe il canto con intermezzi chitarristici e soli tipici di Mark Knopfler, avvalendosi dell'utilizzo delle triadi, di accordi incentrati sulla struttura melodica dei Dire Straits.
Infine l'espressione "Dire Straits" in inglese significa "Terribili difficoltà - Senza un soldo - Tempi duri".

Quello che mi dispiace è che il testo sia una chiara denuncia sociale che personalmente apprezzo, solo che a mio parere i "Tempi duri" si sono giocati un bellissimo testo per il fatto di legarlo ad una struttura musicale già proposta, già vista.
Al contrario di ciò che Fabrizio De Andrè dice nel video, i Dire Straits avevano iniziato la loro carriera nel 1978 e nel 1982 erano già famosi in Italia, quindi io non riesco a vedere questa originalità di cui egli parla.

Resta il fatto che il testo sia molto valido.

Comunque, non tanto per correggere il tiro del mio articolo perchè non è proprio mia abitudine, aggiungo che pochi sanno quanto oggi come oggi Cristiano De André sia un grandissimo polistrumentista: questo è fuori discussione!

Ditemi la vostra.

Ciao ed alla prossima.


lunedì 23 novembre 2009

Dire straits - Sultans of Swing - Mia cover




















I Dire Straits sono il mio gruppo preferito per eccellenza ed ho iniziato a suonare la chitarra elettrica per imparare a riprodurre "Sultans of Swing".

Sono un autodidatta e ricordo che ho cominciato a suonare dapprima cercando di improvvisare sulle melodie di Mark Knopfler, ascoltando i brani dei Dire Straits in "musicassetta".
Poi gradualmente ho cominciato a prendere confidenza con la tastiera della mia "Les Paul Studio bordeaux", pur non conoscendo la musica e le scale.

Ma la mia più grande soddisfazione è arrivata quando sono riuscito a suonare e cantare dal vivo "Sultans of Swing" dinnanzi a 500/700 persone con il mio gruppo di allora.

Il pezzo incluso nel post è una versione fatta 5 anni fà in sala di registrazione. Era la nostra prima volta: eravamo in diretta senza possibilità di sbagliare poichè non si potevano ritoccare eventuali errori e si respirava un'aria di tensione mista a concentrazione, ma soprattuto ricordo il feeling e la fiducia reciproca che noi, componenti del gruppo, riponevamo in noi stessi dopo innumerevoli prove per arrivare alla perfezione.

"Sultans of Swing" è la rappresentazione di un gruppo che suona in locali sconosciuti della periferia di Londra, consapevole di non essere arrivato al successo ma gratificato solo dal piacere di fare musica e di farla bene.

Lo stile di mark Knopfler è inconfondibile e la sua chitarra dal vivo ha un suono che non si può descrivere, sia quando usa la Strato sia quando imbraccia una Les Paul: c'è chi l'ha definito come il suono che pare prodotto dagli angeli il sabato sera, quando sono esausti per il fatto di essere stati buoni tutta la settimana e sentono il bisogno di una birra forte.

Vi riporto fedelmente un articolo tratto da http://www.accordo.it/articles/2008/08/17078/la-tecnica-di-mark-knopfler.html che spiega perfettamente la tecnica di Mark Knopfler: io non avrei saputo fare di meglio...

Knopfler del plettro non sa che farsene da quarant’anni a questa parte. L’incontro con Steve Phillips fu determinante come tramite per scoprire il mondo della musica americana, del blues e del country. Fu proprio lo stesso Phillips ad introdurre Mark alla tecnica fingerstyle che quest’ultimo sviluppò poi in maniera del tutto personale, trasformando il suo stile dalla resofonica alla chitarra elettrica.

« Una volta che impari il fingerpicking sulla chitarra acustica, cambia il modo in cui suoni la chitarra elettrica. Così ho iniziato a suonare la Stratocaster in modo meno distorto differenziandomi dai molti chitarristi che suonano heavy tutto il tempo. » (Mark Knopfler)

Si è detto molto sulla tecnica della mano destra di Mark Knopfler, tuttavia spesso non è proprio conforme alla realtà. Il grosso del lavoro viene fatto esclusivamente con l’uso di tre dita: pollice, indice e medio. L’anulare e il mignolo, tenuti accoppiati, sono utilizzati come ‘appoggio’ al corpo o al battipenna della chitarra. In realtà vedremo come anulare e mignolo intervengano in particolari arpeggi,come ad esempio quello di “Romeo And Juliet”, e in altri limitati casi specifici. Di queste tre dita, pollice ed indice comandano il gioco mentre il medio svolge un’azione complementare. Cominciamo subito con il dire che il pizzicato va eseguito con il polpastrello e non con l’unghia. Lo si capisce sia dal suono ‘morbido’ sia dalle sue mani, curate con unghie particolarmente corte e da una attenta osservazione del suo modo di suonare. Ma allora perché tanto attacco, direte voi? Perché in altri casi tanto calore e ‘attenuazione’, dico io? E comunque in realtà le unghie le usa ma non come immaginate voi. Suonare nello stile di Mark Knopfler non significa esclusivamente pizzicare le corde come se arpeggiassimo una parte d’accompagnamento. Sono molti e profondamente diversi i modi con cui Mark approccia l’esecuzione di un riff o di un assolo.

Dicevamo che il pollice e l’indice svolgono un lavoro di primaria importanza. Questo perché molto spesso queste due dita si trovano a pizzicare la stessa corda svolgendo in pratica l’azione di una pinza. In questo modo la corda viene ‘strappata’ a tutti gli effetti fino a farla frustare sulla tastiera. In alternativa, pollice e indice eseguono un’azione alternata sulla stessa corda dove il pollice ‘pizzica’ verso il basso, mentre l’indice (quasi sempre accoppiato al medio) si comporta come un plettro che svolge una pennata alternata dove si pizzica con il polpastrello e si percuote con una certa decisione con il dorso dell’unghia (ecco perché dicevo prima che in realtà le usa). Tutto sulla stessa corda o su due corde. In pratica si viene a creare un sistema in cui una corda viene in rapida successione pizzicata (dal pollice), ripizzicata (dall’indice che smorza allo stesso tempo la risonanza di quanto suonato dal pollice), percossa (dall’indice ancora, talvolta anche con il medio) e di nuovo pizzicata sempre dall’indice per poi ricominciare il movimento dal pollice.


Ciao a tutti ed alla prossima.....

giovedì 19 novembre 2009

Child in time: la storia di un perdente che potresti essere tu...

Vorrei premettere che ritengo di essere un discreto chitarrista solista ormai da diversi anni ma soprattutto un semplice e grande appassionato di musica.
Questa è la ragione per la quale amo dare la mia interpretazione relativamente ad argomenti collocati in ambito musicale, senza nessuna pretesa, solo per il piacere di farlo e per cercare di creare un confronto, uno scambio di idee che può portare soltanto ad un arricchimento personale.
Non mi arrogo certo il diritto di definirmi un "critico musicale": questo lo lascio fare a chi ne ha le capacità, la competenza, l’obiettività e l’immediatezza nell’inquadramento di un pezzo che io non posseggo.
Non sempre mi innamoro immediatamente di una canzone, riuscendo a coglierne l’alchimia fra musica e testo, anzi la maggior parte delle volte il processo si verifica molto più lentamente, portandomi sicuramente ad una maggiore riflessione e ad un inevitabile approfondimento, il che gioca solo a mio vantaggio.

Detto questo vorrei parlare di un gruppo, che dopo una dignitosa carriera decisamente in bilico fra tendenze pop-rock-progressive, riesce ad entrare prepotentemente nella storia del rock attraverso la pubblicazione del suo quinto album. Sto parlando ovviamente di “In rock”, album realizzato in studio nel Giugno del 1970, che penso possa essere definito senza ombra di dubbio una pietra miliare, una sorta di stupefacente metamorfosi senza precedenti nella storia del rock.
Con la realizzazione del loro quinto lavoro artistico I Deep Purple compiono un clamoroso salto di qualità verso un rock molto duro, senza tralasciare elementi classicheggianti di indubbio interesse.

La perla dell’album, nonostante le accuse di plagio, a mio avviso è “Child in time”, una composizione commovente, straziante ed allo stesso tempo esaltante, capace di provocare un frenetico turbinare di emozioni nell’anima.
Questa ballata della durata di dieci minuti si apre con un tema suonato all’organo, un lento iniziale che si velocizza con il passare dei minuti, fino ad arrivare al duello fra l'Hammond di Jon Lord e la Stratocaster di Ritchie Blackmore che si intrecciano, si scambiano e corrono veloci verso l'apoteosi, supportati dalla batteria di Ian Paice, dal basso della new entry Roger Glover, e da un formidabile Ian Gillan, anche lui neo-acquisto della band che si eleva sopra tutto e tutti con una prestazione vocale al limite delle capacità della voce maschile…
Gillian si inventa una progressione di gorgheggi sempre più acuti e lancinanti da far rizzare capelli, tanto spettacolari che il gruppo decide di farglieli ripetere ben due volte, intervallati da un intermezzo strumentale con cambio di ritmo e devastante cavalcata di Blackmore sulla tastiera della sua Stratocaster. Metà della fama di questo chitarrista e tre quarti di quella del cantante risiedono in queste performance.

Child in time

Sweet child in time you'll see the line
The line that's drawn between the good and the bad

See the blind man shooting at the world
Bullets flying taking toll
If you've been bad, Lord I bet you have
And you've not been hit by flying lead
You'd better close your eyes you'd better bow your head
Wait for the ricochet

Testo della canzone (traduzione italiana)

Bimbo nel Tempo

Dolce bimbo nel tempo tu vedrai la linea
la linea che è tracciata tra il bene e il male

Vedrai il cieco sparare al mondo
proiettili vaganti che esigono un tributo
Sei stato cattivo - oh Signore! - scommetto di sì
e se non sei stato colpito dal piombo vagante
e meglio che tu chiuda gli occhi e pieghi la tua testa
Aspetta il rimbalzo del proiettile.



venerdì 13 novembre 2009

Bollicine: una beffa che diventa un inno...

Dai tempi del suo primo gruppo "I Killer" fino al periodo del suo successo commerciale è divenuto ormai il simbolo del rock italiano attraversando più di tre generazioni.
Sto parlando ovviamente di Vasco, che ritengo essere un grandissimo comunicatore-trascinatore, ed ovviamente un ottimo autore, nonostante spesso la gente si dimentichi che gran parte dei suoi pezzi siano stati realizzati da Gaetano Curreri (leader degli Stadio).

Nel 1983 esce "Bollicine", ultimo album di Vasco prima della sua drammatica esperienza in carcere per detenzione di stupefacenti.
Bollicine, title-track che dà il nome all'omonimo album, merita un discorso a sè, per l'originalità ed il modo con cui Vasco si è beffato di tutto e di tutti facendola passare per un'inno alla Coca-Cola, quando in realtà non era altro che un omaggio sfacciato alla cocaina.E a mio avviso è stato fenomenale nel riuscire a far passare questa canzone per quello che non era, facendola cantare a tutta l'Italia, portandola addirittura al Festivalbar e vincendolo mentre intanto i benpensanti gridavano alla scandalo!

Una canzone geniale anche dal punto di vista musicale poichè caraterizzata da un ritmo allegro, accattivante, da un ritornello che si ricorda già dal primo ascolto (..."Con tutte quelle, tutte quelle bollicine!"...)
E se proviamo a soffermarci su versi come (..."Io la coca cola me la porto a scuola" - "coca cola si, coca cola coca casa e chiesa"...) la canzone acquista un un significato ancora più importante e provocatorio, un vero capolavoro di intelligenza.
Tutta l'Italia perbenista tremava di fronte a quella pausa fra "Coca - Cola" che tutti cantavano in un crescendo insistente ed aggressivo, e intanto il mito di Vasco Rossi prendeva piede in tutto il paese.

"Portatemi Dio", che lo stesso Vasco ha definito "la religione in tetrapack", racconta perfettamente lo stato d'animo che regnava in quella generazione, in cui l'individuo era costretto ad andare in Chiesa la domenica mattina per non essere escluso e sentirsi diverso dagli altri, perchè all'epoca il fatto di non rientrare nello stereotipo di "buon cristiano" portava inevitabilmente all'emarginazione.
Vasco in questa canzone si chiede dove sia questo Dio di cui tutti parlano, che la Chiesa insegnava a pregare e venerare, e che in fondo era soltanto un espediente per trovare conforto nella vita ultra-terrena accettando con maggiore serenità la morte.
E Vasco, ben consapevole di questa realtà è come se chiedesse:"...portatemi questo Dio, che si faccia vedere..."pur sapendo che questo non sarebbe mai accaduto.

Pensate che Vasco inizialmente ha rischiato di essere denunciato dalla Coca-cola. Quando poi la multinazionale americana si è resa conto della pubblicità indiretta ottenuta grazie al cantante di Zocca, paradossalmente ha rinunciato a passare alle vie legali.

Quello che molto spesso mi lascia perplesso è che la gente dovrebbe analizzare testo ed impalcatura musicale di una canzone, cercando di coglierne il messaggio significativo che spesso può celarsi dietro ad un semplice ritornello orecchiabile ed apparentemente superficiale.
Ancora oggi sento dire non solo dai giovani che Bollicine è "una semplice presa per i fondelli alla famosa multinazionale della Coca-Cola".

Lascio a voi i commenti ed alla prossima...


giovedì 12 novembre 2009

The Shadows

Questa volta vorrei optare per una scelta oserei dire coraggiosa e anticonvenzionale parlando degli "Shadows", uno dei gruppi primordiali per eccellenza, precusori di un filone musicale che ha ispirato numerosi artisti quali Eric Clapton, David Gilmour, Brian May, George Harrison, Mark Knopfler, Neil Young, Jeff Beck etc...

The Shadows (le Ombre) erano un quartetto rock inglese nato come band d'accompagnamento di Cliff Richard. Nel 1959 iniziano una carriera autonoma ed hanno un successo mondiale con "Apache", scritta da Jerry Lordan nel 1960. La formazione è composta da chitarra solista, chitarra ritmica, basso e batteria.

Il leader del gruppo è Hank Marvin, chitarra solista (Fender Stratocaster) dal sound personalissimo, pulito, tagliente e morbido allo stesso tempo e caratterizzato dall'abbondante uso di echo ottenuto mediante Meazzi Echomatic e successivamente con Binson Echorec.
Ed è proprio su Hank Marvin, nome d'arte di Brian Robson Rankin, su cui vorrei soffermarmi dicendo che è stato il leader del gruppo rock considerato la band britannica più influente prima dell'avvento degli stessi Beatles, quando la gran parte dei mostri sacri non esisteva ancora (solo Dylan aveva già pubblicato qualcosa).

"Apache", realizzata in studio nel Luglio del 1960, dal mio punto di vista è il pezzo che per eccellenza incarna lo stile particolare cui Hank deve la sua fama, definito espressivo e melodico, caratterizzato da un "tocco" sensibilissimo abbinato ad un uso magistrale dell'elettronica.

Non ho altro da dire, vi consiglio soltanto di ascoltare questo pezzo che risulta essere fresco e geniale ancora oggi, pur avendo 49 anni "suonati"...

Ciao ed alla prossima.



venerdì 6 novembre 2009

Under Pressure


Ciao a tutti, oggi vorrei dedicare un pò di tempo ad una delle canzoni che adoro maggiormente, nata dalla collaborazione fra Freddy Mercury e David Bowie che non ha bisogno di presentazioni.
"Under pressure" è un capolavoro, una prefetta alchimia fra impalcatura musicale e profondità del testo: senz'ombra di dubbio un brano di grande spessore e di grande attualità!!!!!!!!
Molte volte mi sento proprio schiacciato a terra da questo macigno quasi fossimo senza atmosfera, da questo senso di oppressione dovuto allo stress ed ai ritmi frenetici cui la vita quotidiana ci sottopone ininterrottamente.
Questo molte volte ci porta addirittura a dimenticare l'importanza dei rapporti interpersonali, che stanno alla base della nostra esistenza, perchè l'uomo non è fatto per stare da solo....
L'unico ambito sociale cui non possiamo sottrarci è quello lavorativo, che nella maggior parte dei casi è un ambiente di "squali" pronti a farsi le scarpe per un aumento, per inviadia o semplicemente per noia.
Abbiamo il terrore di guardare in faccia il mondo e chiudiamo gli occhi facendo finta di non vedere la sofferenza, dai nostri amici più cari al prossimo che inesorabilemnte sta a migliaia di km da noi, ma sempre persente sulla cronaca nera dei telegiornali: e'come se cadessimo in una sorta di assuefazione. E allora siamo costretti a ritagliarci qualche spazio per poter coltivare la nostra vita sociale ed affettiva ma spesso non è abbastanza...
Si lo so, sono caduto nella retorica, ma è un periodo molto importante della mia vita perchè presto avrò un bambino, e spesso sono slito a questo tipo di riflessioni.
Forse dovremmo davvero cogliere il messaggio che Freddy ci lancia con un grido quasi lacerante e disperato.
Mentre la follia ride e noi andiamo in pezzi schiacciati da questo senso di oppressione, dovremmo davvero riscattarci dandoci un'altra possibilità, dando un'altra possibilità all'amore, a questa parola antiquata ed ormai caduta in disuso ma che ha il potere di cambiare il mondo...
Si perchè l'amore è l'unica cosa che conta e che ha la capacità di farci voler bene.
Cosa facile a dirsi ma difficile a farsi, perchè come dice Vasco "...La vita è tutta un equilibrio sopra la follia...."
Di vita ce n'è una sola, talmente breve e fragile che passa veloce come un brivido e l'uomo non può fare nulla per impedirlo....ma proprio per il fatto che questa è la nostra ultima danza dovremmo cercare di giocarcela nel modo migliore.
Un saluto a tutti ed alla prossima....